Testimonianza d’inclusione
Moreno M. Versolato
M. Michela Marinello (intervista a cura di)
Il Servo di Maria fra Moreno Versolato
e il servizio ai detenuti di Rebibbia a Roma
La Chiesa in uscita che va incontro alle persone: fra Moreno, Cappellano di Rebibbia, in questa intervista ci presenta il suo percorso spirituale e pastorale accanto ai detenuti dell’istituto romano di reclusione, comunità dalle tante necessità che vive ai margini della nostra società.
Accompagnare i detenuti, mi ha fatto riscoprire la mia umanità
Fra Moreno, se dovessi direi qualcosa di te in poche battute, cosa diresti?
Sono di origine veneta e ho 56 anni; da circa 25 anni sono frate e prete Servo di Maria. Ho compiuto gli studi teologici presso la nostra Facoltà “Marianum” di Roma e, in seguito, quelli di antropologia cristiana presso il “Teresianum”, sempre nella Capitale.
Quando hai iniziato un percorso di ascolto e di accompagnamento dei detenuti
e, soprattutto, perché?
Questo servizio ha radici antiche. Prima di entrare in convento, ho conosciuto l’Ordine dei Servi di Maria, di cui ho subito apprezzato due valori: l’amicizia che legava fra loro i Sette Santi Fondatori e il servizio di ‘misericordia’ vissuto verso i poveri e gli ammalati. Da novizio ricordo poi di avere ricevuto un’immaginetta con l’annunciazione dell’angelo a Maria. Essa mi ha interrogato sul mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio, che si fa uomo e cammina con noi nella storia. Più precisamente, ho iniziato il servizio di volontariato in carcere nella seconda metà degli anni ’90, da giovane studente di teologia.
Un giorno il mio formatore invitò una suora Serva di Maria Riparatrice (sr M. Erma) impegnata in un’opera assistenziale, per presentarci alcune attività della Caritas di Roma in cui potevamo inserirci. Tra esse vi era, appunto, l’apostolato in carcere.
Credo di averlo scelto, perché era un settore poco ambito dai miei compagni, tuttavia, intuivo che non sarebbe stato qualcosa di passeggero, ma una ‘vocazione nella vocazione’, che scaturiva da un desiderio, da una predisposizione verso l’umanità fragile e ferita. Infatti, quando mi si è ripresentata l’occasione, mi sono dedicato a questo tipo di servizio. In seguito, ritornato a Roma, ho ripreso i contatti con alcuni volontari del carcere.
Nel 2012, sono diventato cappellano con un incarico ministeriale, presso la Terza Casa circondariale di Rebibbia, ambiente con una trentina di detenuti in cui è possibile instaurare rapporti personali. Avvicino soprattutto giovani anonimi e delle periferie, che hanno meno voce e mezzi di altri più famosi, che pure incontro.
Quali sono le difficoltà che oggi i detenuti incontrano in un carcere?
Sicuramente il sovraffollamento e la promiscuità dei carcerati nelle celle, quindi, la mancanza di privacy, dovuta a spazi ristretti e a servizi igienici spesso inadeguati, valori che toccano la dignità profonda delle persone. Ma direi soprattutto la difficoltà di attivare percorsi riabilitativi e non solo punitivi (ad esempio, ridurre i tempi del carcere e ampliare le comunità di reinserimento, come la nostra), in modo tale che, una volta usciti, i detenuti possano costituire più una risorsa che un problema per la società. Di fatto, nonostante tanti sforzi ed energie spese in tal senso, sovente il carcere non risponde a questa finalità.
Per fare ciò, occorrerebbe rompere con un’idea malsana che si insinua nella mente e nel cuore di molti: il detenuto è il suo peccato, il suo errore, il suo crimine, la sua cattiveria. No, egli è oltre i suoi sbagli e può sempre redimersi, rialzarsi e riprendere il cammino interrotto, perché l’immagine e la somiglianza di Dio, cioè la bellezza e la bontà originaria
che Egli ha posto gratuitamente nel suo cuore, non verrà mai meno, anche dopo il suo peccato (cfr. Gn 4,15; 5,3).
A chi ha commesso reati, spesso ripeto: «Tu non sei sbagliato! Dio ti ha voluto bello e buono, sin dalle origini! Egli non è l’uomo anziano con la barba, dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina, ma il Bene! In noi c’è una scintilla del suo bene, di cui abbiamo una profonda nostalgia. Il nostro compito è di farla brillare». Su questo punto nella sua ultima
enciclica Fratelli tutti papa Francesco ha scritto cose bellissime e profonde (cfr. FT 266.269-270).
Fra Moreno ci racconti qualche esperienza di inclusione vissuta nel tuo servizio ai detenuti di Rebibbia?
Vivo il mio servizio di cappellano come un’esperienza di incontro con detenuti che, al di là dei loro errori, crimini, reati continuano a essere persone con alle spalle storie, famiglie, ambienti di vita particolari, contesti culturali e sociali che li hanno spinti a imboccare strade di illegalità e di criminalità, che essi forse non avrebbero mai intrapreso se si fossero trovati in situazioni più favorevoli e costruttive.
In altre parole, quello del cappellano è un servizio alla persona, un’opportunità per incontrare storie concrete e, in esse, provare a fare un annuncio di vita e di salvezza, di inclusione e di riconciliazione. È soprattutto un servizio in cui sperimento di essere costantemente inviato da una comunità, la Chiesa. In quest’ottica ho recentemente coinvolto un gruppo di detenuti e di guardie carcerarie in un’iniziativa particolare: la visita ai Musei Vaticani e l’incontro con papa Francesco. Costui ci ha accolto con semplicità e fraternità, secondo il suo stile, trasmettendo ai detenuti il messaggio forte: «Non sono qui per giudicarti, ma per accoglierti e per darti una nuova possibilità». Ha quindi ricordato loro di non sprecare il tempo ‘negativo’ della reclusione, ma di trasformarlo in occasione di crescita, per giocarsi, in futuro, la vita con maggiore libertà e responsabilità. Anche la visita ai Musei Vaticani è stata particolarmente gradita: un’esperienza meravigliosa, piena di stupore e di bellezza, nella quale i detenuti, sovente con un background di bruttezza, volgarità e degradazione, hanno scoperto − alcuni per la prima volta − che esiste la possibilità di elevarsi e di diventare migliori attraverso l’arte e la spiritualità.
In tale prospettiva, chi ha ricevuto tanto dalla vita, come noi, dovrebbe avvertire dentro di sé l’urgenza di impegnarsi, perché altri facciano esperienze positive e di crescita e riscoprano così la loro dignità di figli di Dio, amati gratuitamente, al di là dei propri meriti.
Ma la vera esperienza di inclusione è la fondazione Sesta Città di Rifugio onlus, da te avviata con alcune persone sensibili al reinserimento dei detenuti. Ci racconti qualcosa?
Nel 2015, assieme a un gruppetto di persone sensibili, in una casa situata nel quartiere popolare di Ottavia, che la Provvidenza ci ha affidato, grazie alla collaborazione con le Suore Serve di Maria Riparatrici proprietarie dell’immobile, abbiamo dato vita a una piccola ‘oasi’ di accoglienza per detenuti maschi, desiderosi di riscattarsi, e che hanno a cuore la propria vita e il proprio futuro. Ad essi è offerta la possibilità di trascorrere − aiutandoli per quanto è possibile − l’ultimo periodo della detenzione (dai sei mesi a un anno e mezzo), prima del loro reinserimento sociale. Per il nome della Fondazione Sesta Città di Rifugio onlus ci siamo ispirati alla Bibbia (cfr. Nm 35, 6; Dt 19, 1-10; Gs 20, 1-3) e alla tradizione servitana (cfr. Legenda de Origine OSM, n. 2.16), precisamente alle sei città di rifugio del Regno d’Israele e di Giuda, presso le quali i colpevoli di omicidio involontario potevano ottenere il diritto di asilo.
L’Ordine rappresenta la «sesta città spirituale di rifugio» (LO16), voluta dalla Madonna, al cui servizio i Primi Sette Padri dell’Ordine han dedicato la vita. Per i detenuti che vi abitano, la nostra casa è come una nuova famiglia: un luogo in cui riprendere confidenza con la propria privacy, con nuovi spazi personali, ritmi giornalieri, relazioni umane, piccole o grandi responsabilità, legate alla pulizia e alla gestione della struttura e dell’ortogiardino
e/o a qualche lavoretto esterno.
Ma c’è un’altra immagine che mi accompagna: la nostra casa è un ponte tra il carcere e la società. È bello infatti vedere persone con storie difficili alle spalle rifiorire e ritornare a sperare e a vivere. In questi 6 anni abbiamo ospitato più di 20 detenuti con i quali abbiamo camminato insieme e ci siamo messi in gioco. Una volta usciti, quasi tutti hanno intrapreso una nuova vita familiare e lavorativa. Con diversi di loro si sono creati legami forti, che si mantengono nel tempo e che coinvolgono anche le loro famiglie.
Sempre su questo tema, secondo te cosa dovrebbe fare la nostra società per includere chi ha sbagliato ma desidera riscattarsi?
Dovrebbe ridargli fiducia e offrirgli nuove possibilità di lavoro. È attestato ormai da varie ricerche, penso soprattutto a quelle dell’Associazione “Antigone”, che il lavoro diminuisce la possibilità di recidiva nei carcerati. Occorre quindi creare occasioni che favoriscano il loro reinserimento lavorativo nella società. Ma ciò non è facile, perché esige un cambio di
mentalità, per avviare cammini diversi e innovativi, e l’investimento di molte energie e risorse.
… ma anche di atteggiamenti di servizio e di misericordia
Sì, atteggiamenti di servizio e di misericordia verso l’umanità ‘più povera’, verso chi ha sbagliato ed è povero di valori. Nella Bibbia la parola misericordia, che compare diverse volte nell’Antico e nel Nuovo Testamento (cfr. Gn 43,14.30; Es 33,1; 34,6; Lc 7,13; 10,33; 15,20) rimanda alle «viscere», al ventre della donna.
Nel nostro servizio quotidiano cerchiamo di tirar fuori, di far emergere queste ‘viscere’ di misericordia: con l’ascolto, l’accoglienza e la cura dei detenuti, la capacità di orientarli, perché diventino più responsabili; insegnando loro che tutto ciò che si usa è frutto della Provvidenza (in questi anni l’unica cosa che abbiamo acquistato è stata un’icona dipinta
a mano con Gesù e i suoi amici Marta, Maria e Lazzaro nella casa di Betania) e che va rispettato e custodito per tramandarlo ad altri. Ancora, misericordia è diventare eucarestia, pane spezzato per i fratelli, dono creativo che risveglia in loro possibilità nascoste, germogli di vita e di futuro.
Una speranza che porti in cuore riguardo il tuo servizio nelle carceri.
La mia speranza è che si possa ‘evangelizzare il pregiudizio’ verso i detenuti. Infatti, nella società, tra la gente comune, è fortissimo il pregiudizio verso chi ha commesso reati. Ciò non aiuta, al contrario, affossa le persone che escono dal carcere e che vorrebbero scrollarsi di dosso l’etichetta del delinquente, ma sovente non ci riescono o non viene loro permesso.
Il nostro impegno è allora quello di continuare a vedere in chi ha sbagliato un fratello, di dargli nuove possibilità, come ha fatto Gesù con i peccatori. Dalla nostra esperienza emerge che il dare fiducia all’altro produce buoni frutti.
Ma porto in cuore anche un altro desiderio: verso il mio Ordine, che amo molto, nonostante i suoi limiti. Mi piacerebbe che ritornasse ‘alle origini’, all’esperienza dei Primi Sette Padri, che si sono posti a servizio dei poveri e dei pellegrini alle porte delle loro città. Come Maria, che cammina sollecita tra le montagne di Giuda verso la casa di Elisabetta, così anche noi oggi siamo invitati dalla storia a uscire dai nostri sacri conventi per incontrare i poveri e gli esclusi della società, diventando per loro un rifugio, una casa accogliente in cui fare esperienza di inclusione e di misericordia.
Articolo tratto da Monte Senario – Quaderni di spiritualità / Anno XXV, N. 75 Settembre-Dicembre 2021
Moreno M. Versolato, osm, rettore della Chiesa di Santa Maria in Via di Roma, è specializzato in antropologia cristiana. Da diversi anni svolge il servizio di cappellano presso la Terza Casa Circondariale Rebibbia; è anche il fondatore della “Sesta Città di Rifugio Onlus”, ente del Terzo Settore, con sede nella borgata romana Ottavia, che accoglie detenuti in misura alternativa al carcere e favorisce il loro reinserimento nella società. Recapito / Address: presso la Rettoria di Santa Maria in Via, via del Mortaro, 24 – 00187 Roma Sede della Fondazione in Via del Fosso di Santo Spirito, 60 – 00135 Roma M. Michela Marinello, delle Serve di Maria Riparatrici, ha conseguito la Licenza in Teologia ecumenica presso l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia e fa parte del Consiglio di redazione della loro rivista Riparazione Mariana. Recapito / Address: Suore SMR, piazza Tofana, 1 – 00141 Roma